di G. Cirillo, C. De Simone, F. Franco, G. Fappiano, C. Pucella –
Il Laboratorio Experior della classe Quarta S1 del Telesi@ approda alla sociologia “dell’ambiente umano” e riflette sulle tematiche proposte dal Prof. Francesco Vespasiano, nell’ambito dell’ottava edizione di Cittadinanza attiva. Gli studenti, impegnati in un laboratorio finalizzato alla verifica delle analogie metodologiche nello studio degli ambienti fisici, storici, culturali ed umani, hanno avuto modo di guadagnare un quadro descrittivo e scientifico delle dinamiche sociologiche e umane contemporanee, di conoscerne le maggiori problematiche e, infine, di confrontare le diverse soluzioni.
Seguendo le orme del Prof. Vespasiano, bisogna convenire che lo studio della società è particolarmente importante nelle fasi caratterizzate da cambiamenti radicali, di qualsiasi genere essi siano. Tali cambiamenti mettono in discussione i rapporti tra i gruppi sociali e gli individui, imponendo saperi e soluzioni nuove.
La mutazione antropologica odierna, descritta dalle recenti scienze umane e sociali, ha prodotto coppie di opposti coesistenti: sviluppo e sottosviluppo, globalizzazione e conflittualità, sicurezza e paura. Parlare di sviluppo, ad esempio, significa insistere sulla tecnologia, “risorsa che, insieme a quella finanziaria, permea tutte le altre risorse” (Martini, 2007). La tecnologia modifica la vita sociale e cognitiva degli individui, comporta un cambiamento delle capacità umane e, per questo, non può essere utilizzata in modo acritico, senza valutarne tutte le implicazioni umane e sociali. La tecnologia digitale, paradossalmente, crea dipendenza nel momento stesso in cui estende la mente. Il guscio vuoto del consumatore è un cybernauta spaesato, che assiste al moltiplicarsi delle possibilità, senza avere criteri di scelta, che sperimenta la hybris prometeica e il “non senso” di un algoritmo, vale a dire di una logica indifferente ai destini dell’uomo. Il “sottosviluppo” scaturisce, dunque, dall’uso parassitario della tecnologia; la paura e la conflittualità, a loro volta, nascono dalla nuova cosmogenesi i cui esiti non sono prevedibili, e in ciò consiste la percezione dell’accresciuta vulnerabilità del singolo (Pulcini, 2009).
Che fare?
A chi propone di arrestare lo sviluppo della ricerca tecnologica, l’ecoetica di Edgar Morin risponde che la Natura della Natura è nella nostra natura e che la nostra stessa devianza in relazione alla Natura, è animata dalla Natura della Natura: l’antropologico comunica con il biologico e il fisico è caos e cosmos assieme (Morin, 2001).
Invece, per Michele Maffesoli, quando una civiltà ha raggiunto il suo massimo splendore sente l’esigenza di ridiventare cultura, di tornare a ciò che costituisce l’essere originario ed essenziale. Ciò che garantisce la vita sociale, al di là di ogni vicissitudine, è un surplus di vita, una sintesi condivisibile di razionale, immaginario, ludico e onirico, che Maffesoli definisce “societale”.
La sociologia ha studiato anche i modelli di resilienza sociale. La resilienza è una proprietà dei materiali che permette loro di resistere agli urti, deformandosi plasticamente, per poi tornare alla forma originaria;
pertanto, resilienti sono quelle strutture sociali e organizzative coese, flessibili, in grado di significare le situazioni avverse e di porvi rimedio, recuperando, come insegna la psicologia sociale, le forme della narrazione emozionale del sé come strategia collaborativa.
Il quadro di riferimento teorico è costituito dalle “comunità di pratica” di cui parla il sociologo Etienne Wenger, comunità intese come insieme di persone diverse tra loro, dotate di un repertorio di risorse e di significati condivisi, inserite in reti di relazioni di cui si sentono responsabili e che intendono mantenere. Una “comunità di pratica” è una comunità di apprendimento, che orienta, fornisce autoconsapevolezza e permette di sperimentare soluzioni originali. La famiglia, le agenzie educative, le associazioni di volontariato sono “comunità di pratica” resilienti perché fondate sulla “reciprocità generalizzata”, in quanto “non fissano limiti di tempo e non chiedono neppure che ciò che viene restituito abbia lo stesso valore economico di quanto è stato dato” (Vespasiano, 2008).