a cura di Elisa Simone – 5ªES1 –
In data 4.11.2023 gli studenti e le studentesse delle classi 4ªES1 e 5ªES1, accompagnati dalle docenti, Bastone, Franco, Scarinzi, Orsan e Volpe, hanno avuto la costruttiva ed inebriante possibilità di visitare l’Istituto penitenziario di Arienzo: un’esperienza che si è dimostrata più che formativa poiché al prefigurato indirizzo propedeutico all’orientamento lavorativo ed universitario dell’uscita, si è aggiunto un arricchimento emotivo quasi indecifrabile, come se le mura che circondavano gli studenti abbiano, per un istante, abbandonato il proprio rigido ruolo istituzionale e siano diventate confini non solo materiali, ma anche simbolici dal valore ambivalente. Queste ultime, infatti, se da un lato costituiscono l’attestazione concreta della perdita della libertà personale, sancita dall’articolo 13 della Costituzione italiana, dall’altro si sono convertite in imponenti specchi parlanti, quale tacito ma assordante riflesso di una società in cui il giustizialismo è sempre più imperante, a discapito della fraternità. Ciò anche a causa dei falsi miti cui si aggrappa chi diviene pedina della scacchiera di chi si serve dell’ignoranza per armare un esercito pronto a sacrificare la propria retta morale per l’illegalità, pur di imboccare una strada facile, poiché infondata, per il successo. Accolti calorosamente, studenti e studentesse hanno preso posto nella sale, ordinariamente dedita ai colloqui familiari dei detenuti, dove la testimonianza di figure specializzate del settore ha consentito loro di toccare con mano ciò che da statico oggetto di studio disciplinare si è convertito in fertile stimolo alla cittadinanza attiva. La direttrice della struttura penitenziaria, la Dr.ssa Anna Laura De Fusco, ha presentato il complesso mondo del carcere aprendo il suo efficace e penetrante discorso citando l’articolo 27 della Costituzione, cardine dell’ordinamento penitenziario, che, al primo comma, nega la possibilità di scindere la personalità penale da quella personale, al secondo comma, invece, sancisce la presunzione di innocenza fino alla condanna e ancora, al quarto comma, vieta la pena di morte, istituzionalizzando in termini normativi le teorie che Cesare Beccaria aveva già, seppur prive di concretizzazione, teorizzato nel 1764 in ‘Dei delitti e delle pene’. Seppur formalmente garantita, quindi, la condanna di misure coercitive fisiche, spesso la tortura sopravvive nella forma psicologica laddove il detenuto è abbandonato a sé stesso,
vittima della sopraffazione imposta da chi non è vittima bensì alimentatore del disagio sociale a causa della volontà di sostituire l’autorità statale con la ‘legge del più forte’, privo di ascolto, di considerazione, in condizioni igienico-sanitarie disumane, per via di sovraffollamento, bagni a vista, assenza di alimentazione sana. Il comma 3 dell’articolo considerato, espressione dello Stato di diritto vigente in Italia, stabilisce che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’: la pena deve svolgere non solo una funzione punitiva quale conseguenza del reato commesso, bensì anche deterrente per scoraggiarne l’emulazione, oltre che di ristoro al nucleo familiare leso dall’atto illecito, ma, soprattutto, una funzione rieducativa. La dottoressa De Fusco ha voluto fortemente precisare come, in una società in continua evoluzione come quella attuale, il termine di rieducazione può apparire obsoleto se non relativo al minore, proponendo, invece, di adottare quello di inclusione, termine estremamente esemplificativo del ruolo del carcere e del lavoro che le figure che operano al suo interno dovrebbero compiere, come ha dimostrato la passione con cui gli esperti del settore, ai quali gli alunni si sono interfacciati, hanno esposto il proprio vissuto professionale, oltre che curiosità e tecnicismi atti a fornire un’immagine chiara e demistificata di tale ambiente. Il comandante Vincenzo Visconti, infatti, ha voluto precisare il carattere fondamentale della dimensione relazionale del detenuto: se si precludono allo stesso gli affetti ed il contatto con i propri cari, gli si nega la possibilità di rimodellare la propria personalità in modo duraturo poiché l’individuo, privo del godimento della propria sfera emotiva e sociale, annega la propria vitalità e si affida alla brutalità, con essa ogni sorta di speranza, si pone in maniera negativa ed osteggiante al reinserimento nella società, rischiando di cadere nella recidiva. Fondamentale è stata anche la testimonianza dei poliziotti penitenziari quotidianamente in primo piano nello svolgimento di un fondamentale ruolo d’utilità sociale, tra essi, Davide Vegliante, membro del personale di polizia penitenziaria, ad esempio, ha acceso la curiosità dei visitatori sui termini della possibilità di realizzare una ‘spesa’ personale (modello 72) o di cucinare nelle celle in maniera autonoma, toccando anche il tema della dipendenza, spesso dalle sostanze più ambigue, che si manifesta nel carcere. Dopo l’appassionato dialogo, gli studenti hanno visitato le diverse aree dell’ambiente penitenziario, dalla sala colloqui all’area verde in cui i detenuti possono inebriare all’aperto i propri polmoni di area non satura di chiusura, dalla sala di video sorveglianza alla palestra, dal cancello delimitante le celle all’aula alla sala di registrazione mediante foto di riconoscimento e DNA in cui inizia e termina la vita carceraria, toccando con mano il concetto di libertà, spesso sottovalutato e non adeguatamente tutelato. Significativo è stato l’intervento della rappresentante dei funzionari giuridico pedagogici che ha esplicato le modalità con cui tenta di
interpretare la complessa psiche dei detenuti, al fine di affiancarli nel migliore dei modi nel processo di rieducazione; seguito dall’amorevole invito dell’appassionatissima docente volontaria presente nella struttura, che quotidianamente presta il proprio servizio alle vittime della dispersione scolastica convertite in devianti, artefici inconsciamente subordinati a subculture deleterie per l’assenza dell’istruzione, fermamente convinta del ruolo di quest’ultima nel processo di crescita dell’individuo. La docente, infatti, ha fortemente invitato gli studenti presenti ad acquisire consapevolezza della rilevanza della cultura quale arma di potere e forma d’indipendenza che rende l’uomo padrone di sé e delle proprie azioni, saldamente fiduciosa in una possibilità di cambiamento laddove sia l’istruzione a guidare una solida e positiva rivoluzione sociale, realizzabile unicamente se lo stesso tessuto sociale smetta di innalzare barriere contro chi è divenuto deviante perché ai margini di non sistema che punta il dito, ma non porge la mano. Tale aspetto, purtroppo, è largamente verificabile nei ridotti contratti di lavoro per i detenuti (Art. 21 OP) che impediscono agli stessi la costruzione di un’autosufficienza economica al fine di sottrarli dalle modalità illecite di produzione di ricchezza. Il carcere è la proiezione della società, della sua evoluzione e, soprattutto, del suo disorientamento poiché popolato da coloro che hanno smarrito il retto sentiero dell’integrazione e della coesione sociale. L’esperienza vissuta è stata a dir poco rigenerante poiché ha capovolto non solo la tradizionale visione del tetro ambiente del carcere, ma anche la stessa modalità d’interpretazione dei fenomeni, comprendendo il valore del dono della vita senza dover necessariamente passare per la negazione di una delle sue componenti essenziali, come la libertà. Come Leopardi ha reso l’ostacolo materiale della siepe il ponte necessario per raggiungere la quiete e l’eternità rasserenatrice irrealizzabili nella mondana ed atomistica realtà quotidiana mediante l’immaginazione, così il detenuto può distendere il proprio sguardo oltre le barriere fisiche, scorgendo l’orizzonte più rincuorante che ci sia nelle fasi di non lucidità, quello del proprio io, così come il cittadino libero, invece, deve glorificare la propria condizione, condannandone ogni vanificazione mediante dogmatiche ed opprimenti imposizioni che rispondono alla logorante necessità di approvazione, costruendo il terreno fertile alla lotta alla criminalità, senza mai, però, far collassare le fondamenta dell’empatia!
Il carcere, la materializzazione della degenerazione del libero arbitrio umano e, insieme, l’eco dell’adombrata possibilità di cambiamento che aspira a divenire colonna sonora della quotidianità!